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Tango

cortometraggio di Zbigniew Rybszynski

1980 Différence et Répétition

musica di Janusz Hajdun

da Deleuze Combination

Tango est un court-métrage d’animation réalisé par Zbigniew Rybczyński et sorti en 1981. Il a remporté l’Oscar du meilleur court métrage d’animation en 1983. 36 personnages, représentant 36 moments, actions ou plans temporels différents et autonomes, se chevauchent dans l’espace d’une chambre. Chaque personnage fut tourné de façon indépendante après avoir étudié les espaces libres laissés par d’autres. Ils ont été montés ensuite sur le même négatif.

Réalisation et scénario : Zbigniew Rybczyński

Production : Film Polski, Studio Se-Ma-For

Durée : 8 minutes

Date de sortie : mai 1981

Drapeau : Plogne

Milly

Scarpe nuove (1969)

Versione italiana di Gipo Farassino del capolavoro di Serge Lama e Yves Gilbert originariamente intitolato “Les ballons rouges” che trova in Milly l’interprete ideale. La chanson, che descrive senza alcun compiacimento retorico un’infanzia dura, livida e dove “le fate non erano in viaggio”, viene resa dalla voce matura e vissuta di una Milly al culmine di una straordinaria parabola artistica ed umana che l’avevano consacrata in Italia e all’estero come irresistibile soubrette prima, poi come splendida interprete della canzone d’autore più engagé, nonché come acclamata interprete strehleriana per il teatro musicale di Brecht e Weill, passando anche attraverso il prezioso recupero della canzone popolare (in particolare milanese) o la riproposta delle canzoni licenziose da café chantant o da rivista, e non senza cimentarsi in riuscite interpretazioni cinematografiche con i grandi registi italiani degli anni ’60 e ’70.

Alla figura fragilmente minuta della cantante fa da contraltare la sua enorme presenza scenica caratterizzata da una voce, ormai lontana da quella trillante della sua giovinezza, diventata roca, scura, potente, controllatissima ma carica di tutta il peso di un’esistenza sofferta e faticosa pur nei trionfi professionali, di un dolore coraggiosamente accettato ma vissuto con serena determinazione.

Fonte: WWW.Youtube.it canale: Milly Carla Mignone

(si tratta di una versione “ridotta” del brano, è però possibile rintracciarne altre, più complete, in rete)

Nuova Compagnia di Canto Popolare

Tammurriata nera (1944)

Poche canzoni sono riuscite a rappresentare, in soli tre minuti, un intero universo denso e palpitante, vitalmente gioioso quanto sordidamente disgraziato. E’ il caso di quest’autentico capolavoro (di cui si è scelta, tra le ormai tante, la versione magnifica della NCCP della fine degli anni ’70, non estraneo il genio di Roberto de Simone). Composta durante l’occupazione americana di Napoli, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, da E. A. Mario (uno dei massimi esponenti della canzone napoletana) su testo del cognato (direttore di un ospedale napoletato), ricalca la forma della Tammurriata, danza correlata alla tarantella, in cui il fondamentale ritmo binario è pesantemente sottolineato dalla “tammorra” (un tipico tamburo dotato di sonagli di latta) e dall’uso di strumenti quali caccavelle, tricchebballacche, scetavajasse, scacciapensieri, flauto dolce. L’occasione è la nascita, non rara dopo mesi di presenza degli eserciti alleati a Napoli, di un bambino dalla pelle molto scura (niro niro!), frutto (forse) non gradito di rapporti forse non consenzienti, forse prezzolati con soldati di origine afroamericana, in una città che cercava disperatamente di immaginare ancora un futuro nel pieno degli orrori della guerra. La canzone si dipana come un vero e proprio coro greco che sottolinea le (non troppo) meravigliata sorpresa per l’inusitato evento e il malizioso scetticismo per la funambolesca spiegazione accampata dalla madre (sutta a’ botta ‘mpressiunata!). Utilizzando tutti gli stilemi della musica popolare napoletanta e non senza aggiungere anche un grammelot che mimetizza intraducibilmente le sonorità di una canzone americana, allora molto in voga tra gli occupanti, risalta una città ferita ma vitale e che non si arrende alla prosaicità del reale. La Napoli di Tammurriata nera, pur con il suo carico di strisciante razzismo e di accondiscendenza alla sordidezza, non è quella, pur magnificamente descritta da Curzio Malaparte de “La pelle”, e forse nemmeno quella di “Napoli milionaria”, ma è una collettività che tutto trangugia, tutto assorbe, tutto, in qualche modo, riesce ad assimilare e tutto riesce a “napoletanizzare” in uno sguardo affettuoso e dolente per tutte le umane debolezze.

Fonte: Youtube canale: mazzamoro

Lucio Dalla

Anna e Marco (1979)

Ballata postmoderna di rara efficacia e di struggente bellezza. Anna e Marco sono due ragazzi in parte simili, in parte opposti, accomunati dall’insoddisfazione per la loro esistenza e dalla speranza per un diverso futuro che, tuttavia, non si lascia presagire se non come in una casareccia Flashdance di sapore tondelliano o dalle bassopadane atmosfere di Pupi Avati. L’incontro tra i due (lo “scambio della pelle”!), nel turbine della balera, sembra spalancare quel destino diverso dalla banalità quotidiana tanto anelato quanto apparentemente lontano. Come l’immagine di quel Nuovo Mondo, L’America, che, come un miraggio al termine di una lunga traversata su uno scomodo bastimento, promette quell’opulenta pienezza di vita che a lungo è stata vagamente sognata ma, in realtà, mai esistita se non in un informe immaginario, se non in un disperato e vitalissimo volo della mente. L’America, così lontana dalla via Emilia, ancora più lontana della luna, solita ignara sempiterna leopardiana testimone che nulla (forse) sa e nulla (forse) intende. O forse lo scioglimento di questo romanzo da balera è il poco poetico ululato di un cane che riporta tutto sulla falsariga di un improbabile, luccicante happy end che nasconde un ritorno alla banalità della quotidiana e usuale tristezza.

Fonte: Youtube. Canale: Lucio Dalla #LucioDalla #videoufficiale #AnnaeMarco

Sheldon Riley

Not the Same (2022)

Svelarsi velandosi, nascondersi dietro ciò che è evidente e celare ciò che deve vedersi. E’ il vertiginoso gioco che l’emergente artista australiano “dark-pop” propone all’Eurofestival torinese, ponendosi come la proposta più pensosamente suggestiva. Una sfavillante maschera di cristallo che copre/scopre un viso che si offre alla vista solo al termine dell’esibizione, diluvi di swarowski, cascate di piume di struzzo e chilometrici codazzi di organza innalzati a feticci e frapposti al contatto visivo con un artista che si offre nel suo sentire più intimo, nelle sue fondanti scelte esistenziali, finanche nelle sue patologie. Il prezioso e serissimo gioco di Sheldon Riley arriva musicalmente al suo culmine (ricordando in qualche modo La Regina della Notte del “Flauto magico” mozartiano disvelata, nella sua malvagia natura, solo tramite meravigliosi, gelidi e inarrivabili vocalizzi, disorientando chi, fino a quel momento la credeva altro) nel vocalizzo che dà ragione all’assunto del titolo: “Non sono lo stesso”, in cui si pone la vera e sempiterna questione di chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo. E, soprattutto, ci ricorda che siamo un percorso e che noi, in realtà, siamo ciò che, continuamente, diventiamo.

Fonte: Youtube Canale: Eurovosion Song Contest

Monica Vitti

La canzone dei crauti (1972)

Quando nel 1972 Monica Vitti, ancora reduce dalle intellettuali interpetazioni esistenzialiste dei film di Michelangelo Antonioni e non ancora proclamata regina indiscussa della comicità femminile, presentò, in una memorabile edizione di Canzonissima, La canzone dei crauti, lasciò tutti sbigottiti e increduli. Declamando, piuttosto che cantando, in modo totalmente piatto e inespressivo, un testo apparentemente del tutto privo di senso e davvero controcorrente rispetto a quanto veniva proposto in anni non certo lontani dai sommovimenti sessantottini e dall’impegno politico che tracimava anche sulla canzonettistica italiana, Monica Vitti umiliava la tradizione del melodismo italico. Eppure la canzone aveva nobilissimi ascendenti: autori Ivan della Mea e Fausto Amodei (oggi negletti e sconosciuti ai più, ma in relatà i veri padri nobili della canzone d’autore italiana, fondatori del glorioso gruppo torinese dei “Cantacronache” e fautori di proposte musicali sempre attente al risvolto sociale e alle istanze politiche più progressiste) con l’essenziale contributo musicale di Bruno Lauzi, esponente (anch’esso a volte ingenerosamente sottovalutato) della gloriosa scuola genovese che con Umberto Bindi, Lugi Tenco, Gino Paoli, Fabrizio de André, tra gli anni ’60 e ’70 ha rinnovato la canzone italiana sia negli aspetti contenutistici che in quelli squisitamente musicali.

La canzone, sulle note di un valzerino stancamente strimpellato solo da un chitarra (eco meschino dell’attenzione riservata a chiunque allora si atteggiava, in mancanza di vero talento, a cantautore/intellettuale politicamente e progressisticamente impegnato) è un capolavoro del non-sense, genere non certo desueto nella tradizione canzonettistica italiana ma mai, fino ad allora, presentato in una forma così seriosa. L’argomento, smaccatamente e bassamente culinario, fa da contrappasso a ben più nobili argomenti di cui era ritenuto doveroso trattare. Le successive vaghe allusioni a contrapposti blocchi culturali tra popoli mitteleuropei e popoli dalle tradizioni più solari, o quelle a possibili incidenti di scena, o ad episodi dell’eversione armata sono solo pretesti per seppellire con una sana risata, in un’irresistibile e imprevedibile chiusa pseudo-prosutiana, le contrapposizioni ideologiche che tanti danni avevano creato in quegli anni (e non solo in quelli).

Fonte: Youtube Canale: Alessandro Manciucca

Alberto Rabagliati

Sposi (C’è una casetta piccina) 1941

Erano anni bui, ma i peggiori dovevano ancora arrivare. La guerra, che ancora non volgeva al peggio, aveva già occupato le coscienze e lasciava già presagire quanto orribile sarebbe stato l’immediato futuro. Ancor più che cantine e sotterranei appariva un rifugio sicuro questa canzone che, lanciata nel ’41, avrebbe accompagnato gli italiani per tutta la durata della guerra, con il suo carico di festosa e magniloquente esaltazione della privatissima felicità coniugale. Il regime fascista, sempre attentissimo a utilizzare ogni strumento di espressione artistica ai fini del consolidamento dei legami sociali e dell’esaltazione delle italiche virtù, sfruttò sapientemente la carica evocativa di questo brano offrendolo al bisogno di quotidiana serenità della popolazione e veicolandolo con tutti i mezzi allora a sua disposizione, in particolare la radio. La voce suadente e fascinosa del divo/divino Alberto Rabagliati, ormai considerato il più apprezzato interprete del panorama vocale italiano (nonostante qualche peccatuccio di esterofilia che il fascismo fu costretto a perdonargli) è perfetta per un brano sapientemente costruito per donare un briciolo di serenità ed esaltare la certezza della felicità domestica imperniata, da un lato, sul fondamento sociale dell’istituzione del matrimonio, e dall’altro sulla certezza della continuità dell’affetto coniugale, pronuba la radio, nuovo strumento di coesione familiare e sociale, ormai il vero totem domestico rappresentante la compenetrante sacralità dei privati vincoli affettivi con quelli civici.

Il brano ha tutti gli ingredienti retorici necessari a renderlo un inno all’istituzione matrimoniale, correlata da una serenità domestica garantita dall’intero contesto sociale. Il folgorante incipit è scandito da un festoso scampanio che sottolinea come tale istituzione sia conseguente anche a una cultura religiosa che contribuisce, in modo determinante, a cementare un legame affettivo ma anche sociale. La melodia ha un andamento composto, sereno, si muove quasi sempre per gradi congiunti su un ritmo di marcia abbastanza mossa nella strofa (ma poco incline ai poco italici tempi sincopati ormai già molto in voga), molto distesa nel refrain, una marcia nuziale di gioiosa levità. L’orchestrazione è dominata dal timbro dei violini con il loro carico di sentimentalismo solenne e convenzionale, non senza l’intrusione dei corni con la loro carica di epiche risonanze. Immancabile, nel finale, il coro unisono di voci femminili a sottolineare un sentimentalismo che si inquadra in una fondamentale e armonica accettazione delle portanti strutture sociali. Un brano del musicista Carlo Prato su testo di Mario Valabrega, un capolavoro dell’Orchestra “Cetra” di Pippo Barzizza.

Fonte: Youtube Canale: Barzizza Channel

Flo Sandon’s

Viale d’autunno (1953)

Negare la realtà contro ogni evidenza, strenuamente, ostinatamente, fino a trasformare l’illusione in qualcosa che riesce a sopperire alla sua irrimediabile inconsistenza, fino a dare corpo a ciò che rimane un’ectoplasmatica figurazione di ciò che non c’è più ma, forse, non è nemmeno mai esistito. Capolavoro della maturità di Giovanni D’Anzi, Viale d’autunno è una malinconica beguine che si incentra sulla lunga progressione discendente del refrain, simile a un ripetuto singulto corrispondente ad un testo che invece proclama la negazione proprio di ciò che è già irreversibilmente successo. Il brano, che vinse inopinatamente l’edizione del festival di Sanremo del 1953 (era favorita, ovviamente, Nilla Pizzi!), fu interpretato dalla sanguigna Carla Boni e dalla sofisticata voce di Mammola Sandon, in arte Flo Sadon’s. Quest’ultima, che deve il suo curioso pseudonimo a un banale refuso tipografico, è stata una figura molto particolare del panorama musicale italiano del Novecento. Colta, raffinata, curiosa di ogni esperienza (pubblicò nel ’59 un album basato sulle musiche di origine africana), coraggiosa in ogni sua scelta, ebbe non poca influenza sul percorso artistico del marito, Natalino Otto.

La perfetta interpretazione di Viale d’autunno, struggente e rarefatta allo stesso tempo, valse a Flo Sandon’s la definitiva consacrazione ma non le diede mai quel successo di popolare di cui goderono le dive degli anni ’50.

Fonte: YOUTUBE Canale: Musica musica musica Musica
Fonte: YOUTUBE Canale: Buenasuerterecord

La Traviata in flash mob

C’è un’irresistibile malìa nella documentazione filmata di questo sorprendente flash mob realizzato nel 2013 a Buenos Aires in un anonimo centro congressi. L’idea è semplice e geniale a un tempo: portare l’opera verdiana tra le normali faccende quotidiane, fare irrompere l’opera nella nostra vita trasformando le più prosaiche architetture, dentro le quali si consuma la nostra esistenza, in un palcoscenico tanto apparentemente angusto quanto capace di contenere invece ogni nostra emozione.

Il flash mob si materializza quando quello che appare come un addetto alla struttura, con regolare cartellino di riconoscimento al collo, intona, novello Alfredo, le ben conosciute prime note del brindisi verdiano, suscitando, in un primo momento, solo una contegnosa curiosità. Ben presto però si uniscono a lui Violetta, un direttore con una piccola ma completa orchestra e addirittura anche i coristi, tutti sempre mimetizzati con il pubblico, sempre più incredulo e sempre più avvinto.

Splendide le inquadrature dei volti dei partecipanti: sia quelle dei volti dei cantanti che, senza trucco, senza abiti di scena, mostrano però tutto il piacere di poter dar vita reale a personaggi che troppo spesso restano confinati in un’aura di sacrale rispetto inaccessibile ai non “acculturati”, ma ancora più bella è la carrellata dei volti del “pubblico”, in cui si legge lo stupore, la meraviglia, la sorpresa, la curiosità, la voglia di partecipazione, la gioia della condivisione, la voglia di accogliere una proposta inaspettata, il rispetto per il lavoro altrui. Una perfetta fusione di vita e palcoscenico, una magnifica dimostrazione di quanto possa essere nobile e alto lo stare assieme.

Fonte: Youtube canale: TEDxRiodelaPlata

Marisa Monte

Ainda bem (2011)

Meno male che esistono canzoni come questa. Ainda bem, che può tradursi in italiano con l’espressione “meno male” o “fortunatamente”, è un brano tanto apparentemente semplice e minimale quanto, in realtà, denso e complesso. La sua autrice e interprete, Marisa Monte, è una delle figure più significative della canzone brasiliana. Colta, raffinata, si è formata musicalmente con il bel canto studiando anche in Europa e ha partecipato alle esperienze musicali più significative della sua terra, iniziando un’esplorazione della musica popolare brasiliana, in particolare del samba, che la porterà a diventare un punto di riferimento per l’evoluzione di quella grande stagione musicale rappresentata, a partire dagli anni ’60, dal Tropicalismo (di cui furono protagonisti Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa) e poi dalla Musica Popular Brasileria, la cui esponente principale fu Elis Regina. Nel 2002 Marisa Monte, con Arnaldo Antunes e Carlinhos Brown, suggellerà il suo percorso con la fondazione del movimento dei Tribalistas, che sarà conosciuto in tutto il mondo e rinnoverà ulteriormente la musica brasiliana.

Ainda bem è una bossa nova, genere che trova la sua prima ispirazione nel compositore di formazione classica Ernesto Nazareth, autore nei primi anni del Novecento di pregevoli samba-canção. Ma il genere si è poi definito soltanto alla fine degli anni ’50 con l’opera dei musicisti Antonio Carlo Jobim e  João Gilberto, non senza l’apporto del poeta Vinicius de Moraes. Non estranea all’indiretto influsso del cool jazz, la bossa nova, di chiara derivazione dal samba, manifesta la peculiare caratteristica di un carattere dimesso, poco enfatico, più intimistico, prestandosi facilmente, nei terribili anni ’60 brasiliani, a veicolare non solo le inquietudini della popolazione ma anche l’aperto dissenso del mondo culturale brasiliano al clima politico di pesante censura imposto dalla dittatura che aveva imposto il suo potere.

Marisa Monte, con Ainda bem, rilegge un genere ormai consolidato con una meravigliosa voce, duttile, espressiva, sensualissima (non a caso si è cimentata, nell’interpretazione di questo brano, anche Mina), è un miracolo di leggerezza, un commovente atto di fiducia, nonostante tutto, nella vita e nel destino. E nella possibilità che di essere in grado di riconoscere e, soprattutto, accettare acquisendolo nel nostro intimo, ciò che la vita può (forse) donarci. Ainda bem.

Fonte: Youtube Canale: Marisamonte

Domenico Modugno

Che cosa sono le nuvole? (1967)

La canzone, il cui testo è stato scritto da Pier Polo Pasolini, incornicia, all’interno del film a episodi Capriccio all’italiana, l’omonimo cortometraggio del regista di tanti controversi capolavori. Straziante e burattinesca parodia dell’Otello schakespeariano, il breve film è interpretato da Totò (che subito dopo morì senza aver avuto al possibilità di rivedersi in un ruolo così complesso), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (che rivelarono così agli altri, ma forse anche a se stessi, le loro grandi capacità attoriali non certo limitate, come fino ad allora, alle stereotipie della comicità popolare), Ninetto Davoli e Laura Betti (gli attori-feticcio che Pasolini letteralmente “inventò” e utilizzò in molti suoi film e a cui restò legatissimo affettivamente per tutta la vita). Che cosa sono le nuvolel? è la rappresentazione di una crudele tragedia, messa in scena da un burattinaio che muove una compagnia di burattini interpretati dagli attori citati sopra che, in fondo, non fanno altro che interpretare se stessi, o meglio, il cliché attoriale che ognuno di loro incarnava presso il pubblico degli anni ’60. “Noi siamo in un sogno dentro un sogno”, una vertiginosa mise en abyme che si accentua ulteriormente quando il pubblico della rappresentazione, genuinamente popolare e ancorato alla sue salde e “sane” radici contadine, si rivela incapace di distinguere i piani della realtà e si ribella al tragico epilogo della vicenda. Invadendo il palcoscenico, cambia drasticamente il finale della rappresentazione, rompendo le marionette che interpretavano i personaggi “cattivi” e costringendo il burattinaio a sbarazzarsene definitivamente con l’aiuto di un immondezzaio, Domenico Modugno, che, cantando per tutta la durata del traumatico tragitto, si incaricherà di gettarli in una discarica a cielo aperto. Qui Totò-Iago e Ninetto Davoli-Otello vedono, per la prima volta nella loro vita, il cielo con le sue nuvole. Non possono comprendere che cosa siano ma possono emozionarsi e rendersi conto, su un fulminante inciso dell’Adagio del quintetto per archi K. 516 di Mozart, della “straziante, meravigliosa bellezza del creato”.

L’importanza strutturale della canzone si evince dalla strategica doppia collocazione, all’inizio e alla fine del film, come un’ulteriore cornice, piuttosto che un contenitore all’interno del quale vi è l’intero nostro sentire. Un canto di amore infinito, una struggente barcarola costellata dal suono del mandolino e dall’emozionante voce di Domenico Modugno: “Tutto il mio folle amore lo soffia il cielo, lo soffia il cielo così”.

Fonte: Youtube Canale: Stefano Mecenero