Alberto Rabagliati

Sposi (C’è una casetta piccina) 1941

Erano anni bui, ma i peggiori dovevano ancora arrivare. La guerra, che ancora non volgeva al peggio, aveva già occupato le coscienze e lasciava già presagire quanto orribile sarebbe stato l’immediato futuro. Ancor più che cantine e sotterranei appariva un rifugio sicuro questa canzone che, lanciata nel ’41, avrebbe accompagnato gli italiani per tutta la durata della guerra, con il suo carico di festosa e magniloquente esaltazione della privatissima felicità coniugale. Il regime fascista, sempre attentissimo a utilizzare ogni strumento di espressione artistica ai fini del consolidamento dei legami sociali e dell’esaltazione delle italiche virtù, sfruttò sapientemente la carica evocativa di questo brano offrendolo al bisogno di quotidiana serenità della popolazione e veicolandolo con tutti i mezzi allora a sua disposizione, in particolare la radio. La voce suadente e fascinosa del divo/divino Alberto Rabagliati, ormai considerato il più apprezzato interprete del panorama vocale italiano (nonostante qualche peccatuccio di esterofilia che il fascismo fu costretto a perdonargli) è perfetta per un brano sapientemente costruito per donare un briciolo di serenità ed esaltare la certezza della felicità domestica imperniata, da un lato, sul fondamento sociale dell’istituzione del matrimonio, e dall’altro sulla certezza della continuità dell’affetto coniugale, pronuba la radio, nuovo strumento di coesione familiare e sociale, ormai il vero totem domestico rappresentante la compenetrante sacralità dei privati vincoli affettivi con quelli civici.

Il brano ha tutti gli ingredienti retorici necessari a renderlo un inno all’istituzione matrimoniale, correlata da una serenità domestica garantita dall’intero contesto sociale. Il folgorante incipit è scandito da un festoso scampanio che sottolinea come tale istituzione sia conseguente anche a una cultura religiosa che contribuisce, in modo determinante, a cementare un legame affettivo ma anche sociale. La melodia ha un andamento composto, sereno, si muove quasi sempre per gradi congiunti su un ritmo di marcia abbastanza mossa nella strofa (ma poco incline ai poco italici tempi sincopati ormai già molto in voga), molto distesa nel refrain, una marcia nuziale di gioiosa levità. L’orchestrazione è dominata dal timbro dei violini con il loro carico di sentimentalismo solenne e convenzionale, non senza l’intrusione dei corni con la loro carica di epiche risonanze. Immancabile, nel finale, il coro unisono di voci femminili a sottolineare un sentimentalismo che si inquadra in una fondamentale e armonica accettazione delle portanti strutture sociali. Un brano del musicista Carlo Prato su testo di Mario Valabrega, un capolavoro dell’Orchestra “Cetra” di Pippo Barzizza.

Fonte: Youtube Canale: Barzizza Channel

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