Patty Pravo

Tripoli 1969

Lanciata, ad onta del titolo, nel 1968, in un’applauditissima edizione di Canzonissima, fu accolta con un certo sgomento. Patty Pravo era già un simbolo di anticonformismo e, anche nel recinto del Teatro delle Vittorie, il ’68 faceva echeggiare i suoi venti di rivoluzione e la voglia di cambiare ogni rapporto sociale. Patty Pravo, con la sua voce dal timbro inconfondibile, presenta un brano i cui assunti, liberati dallo sfavillante uso delle metafore (o meglio: di un intero piccolo arsenale di figure retoriche), sono:

  1. La donna, in un rapporto di coppia, deve essere sempre fedele al suo uomo e la casa è elettivamente l’unico suo spazio in cui muoversi.
  2. E’ giusto e doveroso che l’uomo, in un rapporto di coppia, cerchi di conquistare anche al di fuori d’esso, altre donne. Il suo spazio in cui muoversi è elettivamente l’altrove.
  3. Un uomo che non tradisce la sua donna non è un vero uomo e non ha una vera pienezza di vita
  4. Una donna non deve neanche pensare di poter tradire il suo uomo, e quando lui la tradisce aspetta in casa il suo ritorno, accogliente e consolatrice, grata e felice di poter riprendere il ruolo di prima
  5. La guerra è necessaria come sono necessari i tradimenti
  6. Le nazioni sono rispettabili solo se sono capaci di conquiste. In sostanza lo sono solo se diventano potenze coloniali.

Il tutto corroborato da precise ed efficaci scelte musicali (di cui è autore Paolo Conte!): l’intero brano consiste in una marcia militare, gioiosamente scandita dalle percussioni e dagli ottoni. Il fulcro del brano è uno squillo di tromba che altro non è che una precisa citazione del ritornello di A Tripoli!, meglio nota come Tripoli, bel suol d’amore, composta nel 1911 in occasione della conquista italiana della città nordafricana e cantata dalla fascinosa Alessandra Drudi, in arte Gea Della Garisenda (un tale evocativo pseudonimo non poteva che esser stato concepito dal vate D’Annunzio). L’Italia intera ne restò incantata e la canzone, con il suo grandissimo successo popolare, rappresentò l’espressione della velleità della politica italiana di diventare una potenza coloniale e di avere il diritto di conquistare quel “posto al sole” (come lo definirà poi Mussolini) che altri occupavano.

Brano impresentabile, allora come oggi. Forse. Inconcepibilmente interpretato da Patty Pravo. Forse. Ma Tripoli 1969 è una strana canzone, in cui sia il testo che l’impianto musicale appaiono monolitici e univocamente interpretabili ma… già il titolo è destabilizzante, con il suo visionario riferimento all’anno successivo a quello della presentazione, come una piccola parodia dell’orwelliano 1984. Ma antiteticamente, nonostante il fin troppo prudente riferimento del titolo al futuro, il brano è proiettato nel passato e si focalizza sulla guerra di Libia. Ma non certo con rigore storiografico: il nome Tripoli, nella canzone, non è altro che l’immaginifica evocazione di terre favolose e lontane, foriere di imprecisate glorie personali e nazionali. Tripoli è l’ideale e abbagliante terra di conquista, un miraggio che scaturrisce dal bisogno di credere nel propro predominio. La realtà appare sempre più leggibile come una serie di equivalenti contrapposizioni (dentro/fuori, vicino/lontano, uomo/donna, persona/nazione, guerra/pace, vittoria/sconfitta) con ruoli molto ben definiti. Ma, ad un certo punto, tutte le sicurezze che il brano sembra offrire, traballano. Il finale, in apparente coerenza con le premesse, si chiude con la rievocazione delle lacrime, versate dalla donna in solitudine durante le “guerre di conquista”, e con l’accettazione, da parte sua e senza la minima recriminazione, del ruolo di colei che deve “curare” le ferite di chi tante gliene ha inferte. Finale tanto logico quanto, nella sostanza, paradossale. E si insinua nell’ascoltatore il dubbio che tutto il brano non sia altro che un’abilissima trappola di cui troppo tardi si scorge l’ironia e l’irrisione. Fino a pensare, rovesciando la lettura fin qui fatta, che sia lei la vera vincitrice. Senza guerra, senza sparare un colpo, senza uscire di casa, senza fanfare, con la sola potente arma del suo affetto incrollabile e della sua più comprensiva visione delle cose. Vince vivendo il suo rapporto pacificamente nella quotidianità, in una dimensione di interiorità, accettando l’altro e rifuggendo da qualsiasi volontà di coercizione e da qualsiasi violenza. Protagonista del brano, magnificamente sorretto dalla voce calda, suadente e determinata di Patty Pravo (vestita da gladiatrice, come da presentazione di Walter Chiari) e dal suo abbagliante carisma, diventa l’ambiguità che non si scioglie più nemmeno con la luminosa marcia trionfale in cui si sciolgono tutte le tensioni e in cui si annullano tutte le contrapposizioni. Ma in cui ogni spavalda certezza si perde nella nebbia del dubbio.

Fonte del video: Youtube. Canale di Alessandro Tenneriello

2 pensieri su “Patty Pravo

  1. Mirella

    Come sempre, leggendoti, mi si apre la finestra della comprensione. Mi ricordo l’impressione che mi fece questo brano al primo ascolto, nel’68. Avevo 14 anni, frequentavo la prima superiore da spaesata fanciulla, chiusa nella quotidianità famigliare di chiusure mentali ed esaltazione della morale cattolica. Mi aveva confuso, allora, il contrasto tra il testo , la musica e la figura, la voce e il sorriso ironico di quella Patti
    Pravo a cui avrei voluto assomigliare.
    Ora capisco l’ironia sottesa.
    Grazie per aver illuminato quella fase di passaggio tumultuoso che è stato il sessantotto, foriero poi dei futuri anni a seguire

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