Amy Winehouse

Back to black (2007)

Ad ormai dieci anni dalla sua traumatizzante scomparsa la stella di Amy Winehouse continua sempre più a brillare con il suo alone di conturbante maledizione, specchio perfetto di una supposta corrispondenza tra la sua arte e la sua vita, tormentata e dissipata. La profonda solitudine espressa da molte sue canzoni, diventata, tout court, l’angosciosa desolazione di una persona incapace di vivere serenamente il rapporto con gli altri. Si è perfino tirato in ballo l’origine ebraica della sua famiglia e, di conseguenza, della sua educazione, come se questa fosse stata una stigmate del suo destino che, deterministicamente, la obbligasse a sentirsi estranea agli altri, magari anche alla sua stessa comunità. In tutta questa “mitologia” tuttavia si dimentica la cosa più importante: era un’interprete straordinariamente brava. Non so quanta importanza possa avere la sua presunta capacità di incarnare il personaggio che è stato con lei identificato (e lei stessa, con l’ostentazione del suo inseparabile quanto improbabile toupet molto artefattamente retrò, come l’elemento superstite di una maschera teatrale, poneva una cesura tra la Winehouse persona e la Winehouse interprete), ma era sicuramente in grado di rappresentare, con la sua vocalità e la sua presenza scenica, ciò che cantava, di dare credibilità, consistenza e, in ultima analisi, vita, ai destini raccontati, a volte solo per allusioni ed accenni, nelle sue canzoni. Ma ribadisco, Amy Winehouse, come ogni grande cantante, interpretava. E forse i tristissimi e non essenziali video delle ultime esibizioni dal vivo, in cui lei era visibilmente “appannata”, anche se ormai oggetto di culto, sono molto meno realistici e veritieri delle sue realizzazioni in studio, nel pieno del controllo delle sue doti.

Back to black è probabilmente il suo brano più noto e più rappresentativo, quello che più ha contribuito al mito dell’artista maledetta. Si tratta, appena un po’ dissimulata, di una marcia funebre, enfatizzata dalle sottolineature (volutamente un po’ retoriche e magniloquenti) del timpano e delle campane tubolari. E’ l’eterna storia di chi ama, o crede di amare, e si annulla nell’attesa di una controparte che forse non c’è mai stata e sicuramente non c’è. Amore quindi come annullamento di sé, in un’altalena morbosa di speranza e cupio dissolvi, un vezzeggiamento della morte che diventa sempre più esplicito e finisce per catalizzare ogni pensiero. Tutto reso magnificamente dal gioco di parole back-black che ossessivamente diventa ancor più di un leitmotiv, diventa il “senso” di un’esistenza privata di qualsiasi consistenza e di qualsiasi implicazione temporale, ridotta a un perpetuo, vano e vacuo ondivago auspicio.

Altra artista prigioniera del mito che si è creato su di lei dopo la morte è Mia Martini che, nel 1973, ha insuperabilmente interpretato Minuetto, altro splendido brano che necessitava però di un’interpretazione in grado di mettere in luce le infinite sfumature che portano una persona, complice un presunto sentimento amoroso, al progressivo autoannullamento. Il brano è costruito sulla vaga somiglianza, quasi un accenno, alla forma del Minuetto, danza popolare francese diventata di corte nel Settecento, qui assunta come emblema di una certa cerimoniosità e leziosità, di un complimentoso andarivieni simile ai rapporti che intercorrono tra i due protagonisti del brano. La sostanziale sterilità della loro relazione si scioglierà nella disillusa accettazione del dato di fatto, da parte della protagonista, che si appiattirà nel grigiore, anche in questo caso senza tempo, di una rassegnata scontentezza.

Chi non teme di essere apprezzato solo come cantore della propria vita è Mina, sempre attentissima a mostrarsi solo come un’interprete poliedrica dall’immagine artificiosa e volutamente costruita su stereotipi. Mina, per ogni interpretazione, nasconde se stessa dietro maschere sempre diverse e sempre iperboliche. Ma indubbie sono anche le straordinarie qualità interpretative di Mina, che riesce a dare consistenza di realtà a qualsiasi personaggio interpreti.

In Sono come tu mi vuoi, del 1967, Mina presenta una donna che si annulla completamente nel tentativo di far breccia nel cuore di una controparte di cui nulla sappiamo e nulla emergerà. Un “lui” che non esiste, nemmeno per rifiutarla. L’illusione si fa delirio (“quanto amore t’ho dato!”) e lei non si accorge di precipitare verso il nulla, di diventare anche lei inconsistente come il suo millantato amore. Una discesa verso il fallimento al suono di una musica che si fa sempre più trionfale, con un canto a voce sempre più spiegata.

Splendido il filmato che l’accompagna in cui una Mina, in un improbabile e troppo appariscente abito a fiori, fastidiosamente svenevole e smancerosa, si rifrange in mille specchi che ne frantumano pirandellianamente la personalità, annullandola in un labirinto di vie senza uscita.

2 pensieri su “Amy Winehouse

  1. Mirella

    I tuoi testi mi stimolano a cercare più notizie sugli interpreti di cui scrivi. Proprio ieri sera ascoltavo la voce di Amy winehouse e provavo emozioni forti, insieme al pensiero che il suo destino era scritto nel suo nome , (Casa del vino) ma ciò mi è sembrato semplicistico e riduttivo. Oggi cercando notizie su di lei ho i fatti appreso quanta sofferenza c’è stata nella sua vita e quanta negativa influenza hanno avuto il divorzio dei genitori e più di questo il suo abbandono in un istituto rigido e freddo che l’hanno devastata, senza più possibilità di “cura” .
    Non essere amati non fa amare sè stessi e se la sofferenza e il bisogno d’amore nutrono il talento espressivo, ostacolano la costruzione di una personalità consapevole e forte dei propri limiti e punti di forza. Credo lo stesso schema sia valido per Mia Martini.
    Ma per Mina, no, il talento e le difficoltà della sua sfera intima e famigliare, l’hanno resa più forte e hanno nutrito le sue capacità interpretative di empatia infinita. Molte volte sono stata a Cremona
    E ho respirato quella emozionante atmosfera di amore per la musica che trionfa nella ” casa della musica” dedicata ai violini, in primis allo stradivari. Tante volte sono stata nell’appartamento vicino a quello in cui abitava Mina, respirando arte e relazioni semplici, a partire dai vicini e a seguire dai bancarellai dei mercatini sotto casa. Forse, non so, ma mi piace crederlo, l’infanzia di Mina l’ha resa forte per la vita, dandole quell’amore che ancora oggi emana dalla sua voce

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    1. Non sono così sicuro che l’alimento ideale per il talento espressivo sia la sofferenza. Il dolore devasta e, temo, quando si cronicizza, tende ad essere responsabile di sterilità espressiva e incapacità di entrare in relazione con altri. Io direi che le nostre interpreti sono brave nonostante la sofferenza patita, nonostante il cammino drammatico che hanno dovuto affrontare. Un’interprete è brava non se incarna le sue personali vicende ma se riesce a rappresentare una condizione, non necessariamente la sua, e a far rivivere nell’ascoltatore i ragionamenti, le emozioni, le gioie, i drammi, la visione del mondo degli altri. Mia Martini ed Amy Winehouse sono state della grandissimi interpreti ma, forse, sono state costrette a limitarsi ad un repertorio troppo cucito sulla specificità della loro esistenza. Probabilmente sarebbero state molto brave anche ad interpretare altro. L’interprete Mina, tramite la sua maniacale attenzione a nascondere se stessa dietro tante maschere diverse, ha potuto cantare (in modo magistrale!) quello che ha voluto, senza il vincolo di dover assomigliare alla signora Mina Mazzini. Quanto alle questioni di forza… credo che sia Amy Winahouse che Mia Martini siano state molto, molto forti: non sempre basta avere talento, e loro lo avevano, ma occorre avere una grande capacitò di credere nei propri mezzi e nella validità di ciò che si propone. Nonostante l’ostracismo che, in modi diversi, le ha colpito al cuore, hanno ancora qualcosa da dirci.

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