To die for (2020)
Nella sua sofferta ricerca delle espressioni più intime dei moti dell’animo il giovane interprete inglese Sam Smith riesce con questa ballata, in modo semplice e struggente, a dimostrare come il denudamento dei propri sentimenti possa coniugarsi perfettamente con il controllo della forma. Complice una voce straordinaria, duttilissima, di grande espressività.
La canzone indaga il desiderio di non essere soli, il bisogno di quotidiana condivisione che tutti proviamo e la paura che ciò ci non ci sia destinato. La gioia e la paura di vivere per qualcuno, di morire per qualcuno. O almeno di desiderarlo. Accompagnata da un video particolarissimo, di grande impatto visivo, interamente incentrato sui manichini di una vetrina di un negozio. Un video di grande bellezza e di emozionante efficacia.
La voce e la musica risuonano con le mie corde del cuore, già solo sentirle mi evocano struggenti emozioni , ricordi e desideri di intimità condivisa.
Le tue parole, Giovanni, esprimono ancora meglio , ciò che avrei detto, ma non così bene. Aggiungo un mio pensiero: nel video vedo una testa di manichino, che guarda la felicità degli altri, ma è separato da un vetro. In più credo che ciò simboleggi anche il sentirsi chiuso dentro una maschera che gli altri, le convenzioni, ci hanno portato ad indossare. E la bambina, che pura e sensibile, lei sola, sente questa vita vibrante dentro la testa , non può nulla, trascinata via dalla madre distratta.
Anche l’altra testa di donna-manichino non sfugge alla prigionia della maschera e dell’impotenza. Ma alla fine è un ladro, che infrange non solo la vetrina, ma anche le regole a liberare il manichino, che però può solo sperare di parlare, in “libertà dipendente” dal suo rapitore, sia pure, “forse” per desiderio di possesso o per “amore”.
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Analisi, la tua, straordinariamente efficace e convincente. Mi induce a soffermarmi su come nel video tutto sia frutto di uno sguardo indiretto, mediato, rifranto da qualche altro elemento. Non l’immagine dell’interprete ma un manichino, il vetro che, lungi dall’essere veramente trasparente, modifica ogni immagine, riflessi che rendono la realtà più incerta e soggettiva. Assenza di contatti fisici: il vetro separa i personaggi che possono (o che credono di) vedersi ma non toccarsi, in uno spazio virtuale che prevede una ferrea separazione come quella tra il palcoscenico e il pubblico. La mano della bambina, forse un’esplicita citazione di ET, cerca di stabilire un contatto vero ma non ci riesce, non può riuscire. Solo alla fine il ladro tocca il manichino ma, come tu rilevi, ciò a seguito di una rottura delle regole. Quello che emerge, secondo me, in tanta inquietante e destabilizzante normalità è, parafrasando forse a sproposito Hannah Arendt, la banalità del voler essere felici, la banalità di non voler essere soli. La felicità forse è proprio nell’accettazione della semplicità (o, forse, proprio della banalità) dei nostri desideri e del nostro disperato quanto toccante bisogno di convenzionalità.
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